Il vento ambientalista soffia forte, sui consumatori sempre più attenti. Come è stato cavalcato dal mondo imprenditoriale, della produzione? Come rispondono le aziende alla domanda di sostenibilità, salute e genuinità, autenticità?
Alcune bene, alcune molto male. Come possiamo difenderci da queste ultime?
Alcune imprese sfruttano il tema della sostenibilità per incrementare le vendite ma senza crederci davvero. Sviluppano strategie commerciali e promozionali intorno al concetto del “basso impatto ambientale oppure dello spreco zero oppure delle emissioni zero”. Queste strategie convincenti e ostentatamente verdi (green marketing) si basano sul tentativo di attirare i consumatori facendo leva sulla loro sensibilità ecologica, pubblicizzando qualità che rendono un prodotto eco-friendly.
Nella maggior parte dei casi non certo per le materie prime oppure per l’intero processo produttivo. Queste aziende si limitano a investire risorse e capitali nella comunicazione di pratiche sostenibili più che nella reale adozione e messa in campo delle stesse: siamo di fronte al fenomeno del green washing. Nella nostra lingua può definirsi pubblicità ingannevole ed è come tale sanzionabile dall’ordinamento giuridico italiano così come di altri Stati nel mondo. Purtroppo molte continuano a farla franca, perché i loro uffici legali sanno come ingaggiare battaglie estenuanti per difendere i propri interessi.
Cosa significa davvero green washing?
Facciamo qualche esempio. Vi è mai capitato di vedere quegli spot televisivi nei quali potenti SUV sfrecciano silenziosi nelle foreste? Oppure allegre casalinghe sorridono ai loro detersivi biodegradabili al 100%? Vi viene mai il dubbio che non siano amici dell’ambiente?
Una delle aziende di e-commerce più conosciute al mondo si è recentemente scoperta ambientalista ed ha creato un fondo miliardario per attività filantropiche allo scopo di arginare il cambiamento climatico. Questo però non ha fermato o modificato il cuore del suo business, fondato sulla proliferazione di imballaggi (che diventano rifiuti), che viaggiano su un esercito di mezzi di trasporto alimentati da carburanti fossili. Senza nemmeno citare le condizioni dei propri lavoratori. Però, su carta, è un’azienda che sta “transitando” verso un’economia ecologica.
Il mondo del digitale si è espresso a favore della causa ambientalista e – a ben guardare – le sedi delle principali multinazionali dell’algoritmo non hanno ciminiere fumanti; tuttavia esse continuano ad inquinare, soprattutto perchè sono grandi energivori: occorrono infatti tantissimi kwatt per nutrire le fabbriche di server. E da dove proviene tutta questa energia se non da fonti fossili?
Dicono che l’auto elettrica rappresenti il futuro dei trasporti sostenibili. Lo è davvero? A grattare sotto la superficie si tratta di uno spostamento della fonte d’inquinamento: non più pompe di benzina ma batterie che funzionano con una presa di corrente. Peccato l’energia continui ad essere prodotta dalle centrali a petrolio, carbone, gas naturale o nucleare. Peccato che il litio e gli altri minerali rari necessari per l’elettronica stia creando devastazioni socio-ambientali nelle aree di estrazione. Peccato infine il proliferare di discariche di apparecchiature, come le batterie, che sono difficilmente riciclabili.
Cosa possiamo fare noi consumatori?
In veste di consumatori possiamo evitare di cadere nei trabocchetti quotidiani dell’ecologismo di facciata, soprattutto nel momento in cui decidiamo l’acquisto di un prodotto piuttosto che un altro. Oppure decidiamo di non acquistare affatto.
Molte aziende produttrici di fast fashion lanciano campagne sull’uso di cotone biologico per le quali è fortemente dubbia la sostenibilità “sociale”, oppure inseriscono nell’assortimento piccole quantità di capi meno impattanti. Abbiamo davvero bisogno di una maglietta in più o di un ennesimo vestito nero?
Qualche anno fa sono saliti agli onori della cronaca alcune aziende produttrici d’acqua in bottiglia che reclamizzavano il packaging ad impatto zero, ma questo rappresentava solo una piccola quota dell’intera produzione. E’ tanto difficile utilizzare una borraccia anche termica, riutilizzabile all’infinito, invece dell’usa e getta?
I supermercati ci raccontano che le buste sono in plastica riciclata, così noi, consumatori attenti e responsabili, ci mettiamo la coscienza in pace e continuiamo tranquillamente a fare le spesa da loro, senza modificare mai il nostro comportamento. E tra gli scaffali troviamo sempre più prodotti biologici, pieni di messaggi green che sbandierano l’impegno dei grandi colossi alimentari nella ricerca per la riduzione dell’impatto ambientale, nella promozione di uno stile di vita sano e nell’adozione dei principi dello sviluppo sostenibile. Nel passato recente alcune industrie alimentari, anche italiane, hanno subìto denunce per l’uso massiccio di involucri plastici nonché dell’olio di palma. Sono state accusate di distruggere le foreste pluviali, di sottrarre il prezioso habitat agli animali, soprattutto mammiferi, che si avviano così all’estinzione.
E’ possibile acquistare altri prodotti magari meno noti ma altrettanto buoni? E se invece del supermercato andassimo nei mercati contadini, di comunità a conoscere direttamente i produttori dei nostri alimenti?
Ma le cose stanno davvero cambiando?
L’abito non fa il monaco: nonostante i prati verdi e il sole che sorride dalle confezioni manca una reale adesione alla difesa e tutela dell’ambiente. Le strategie di green washing hanno un unico denominatore comune: dichiarare la sostenibilità di un prodotto basandosi solo su attributi generici senza fornire informazioni precise, tecniche, accessibili, documentate. In questo modo spostano l’attenzione del consumatore sui dettagli (la confezione bio) distraendolo dall’intera catena di approvvigionamento, produzione, distribuzione e vendita (che ha impatti ambientali disastrosi).
Ed è molto più facile pagare qualche migliaio di euro in pubblicità, che riconvertire l’intero processo produttivo con tecnologie e innovazioni che puntino alla decarbonizzazione.
Per questo occorre prendere consapevolezza del nostro ruolo di consumatori: dalle singole scelte e comportamenti di acquisto (domanda) dipende l’ampiezza o meno di taluni mercati (offerta) fino al ripensamento totale delle forze produzione-consumo in chiave ecologica.