di Nicolò de Trizio, Comitato di Condotta. Ho visto recentemente Hunger, nuovissimo film proveniente dalla Thailandia, che si propone di raccontare il mondo della ristorazione da un punto di vista un po’ diverso dal solito. Purtroppo, per ora, è possibile trovarlo solo su Netflix, ma si spera che venga esteso ad altre piattaforme televisive o cinematografiche.
La trama ma senza spoiler!
Ci troviamo nel mondo della cucina thailandese: la protagonista del lungometraggio è Aoy, una giovane cuoca che lavora nel ristorante di famiglia a Bangkok, dove vengono serviti principalmente piatti popolari a base di noodle e riso fritto. L’abilità della ragazza viene notata da un sous-chef, che la invita a fare una prova per entrare nello staff di “Hunger”, il più lussuoso e rinomato ristorante tailandese, diretto da Chef Paul, noto per la sua ineguagliabile creatività ma anche per la sua intransigenza in cucina. L’apprendista inizia dunque un percorso che la condurrà, attraverso straordinari sacrifici e difficoltà, a un rapido ed insperato successo. Ma che le farà pure conoscere gli orrori di quel mondo apparentemente luccicante: sopprusi e violenze perpetrati nelle cucine dedicate ai ceti arricchiti e potenti di una società in rapida crescita economica.
L’interesse di questo film si basa sul fatto che, attraverso l’argomento cibo, è possibile aprire una finestra per dare uno sguardo lucido e disincantato sulla società di un lontano paese orientale come la Thailandia, fondata su disparità sociali e forti contrasti tra le sfrenate stravaganze dei ricchi in contrapposizione alle modeste esistenze del ceto popolare. Al termine del suo “percorso di iniziazione” la giovane Aoy scopre, suo malgrado, che il mondo in cui sognava di entrare è in realtà un luogo squallido e pieno di individui senza scrupoli. Così decide di tornare alla cucina delle origini, delle sue origini, circondata dall’affetto dei familiari.
La trama del racconto è tutta qui: una favola ordinaria e un po’ retorica, apparentemente a lieto fine. Tuttavia il racconto serrato, specialmente nella prima parte del film, la bellissima fotografia e gli attori (del tutto sconosciuti in occidente) forniti di malinconica teatralità, rendono molto godibile questa pellicola.
La gustosa relazione tra cibo e cinema
Sono trascorsi diversi decenni da quando il cinema rappresentava i cuochi e le cucine dei ristoranti solo come luoghi dove poter creare scherzi e gag nelle divertenti commedie francesi (L’aile ou la cuisse del 1976 con Louis de Funès).
In seguito si sono affermate pellicole in cui la cucina veniva rappresentata come atto d’amore verso le persone e l’umanità. Si citano:
- il Pranzo di Babette del 1987, diretto Gabriel Axel
- Ricette d’amore del 2001, della regista tedesca Sandra Nettelbeck
- Mangiare bere uomo donna del 1994, diretto da Ang Lee a Taiwan
Quando lo chef diventa celebrità: il cibo a Hollywood
Nel primo decennio del 2000 hanno cominciato ad affermarsi alcuni cuochi come nuove celebrità dello spettacolo, sicchè Hollywood si è impadronita dell’argomento trasformando i precedenti successi in banali pellicole sentimentali con le stars del momento (Sapori e dissapori del 2007 diretto da
Scott Hicks). Con un altro film di produzione anglo-statunitense, Il sapore del successo del 2015, diretto da John Wells, si è cominciato a rappresentare la dura vita dei cuochi stellati e del loro difficile rapporto con un pubblico sempre più affamato e pretenzioso. Un’altra pellicola, peraltro assai godibile, su questo tema è Chef, La ricetta perfetta, del 2014 scritto, diretto ed interpretato da Jon Favreau.
Altre pellicole rappresentano il cibo e la tavola come essenza della cultura tradizionale: vedi ad esempio Cous cous del 2007, diretto da Abdellatif Kechiche.
Dall’altra parte della vita
Un altro tema ricorrente della cinematografia è il rapporto del cibo con la morte. La grande abbuffata di Marco Ferreri, è un famoso film del 1973, che contiene una feroce critica alla società dei consumi e del benessere, rappresentati in forma di istinti primordiali basati sullo sfrenato appetito e sull’eros: la condanna dell’autore si realizza nella rappresentazione della inevitabile autodistruzione dei protagonisti.
Vatel è un film del 2000 diretto da Roland Joffé: ispirato alla storia vera di François Vatel, racconta il suicidio del protagonista che ritiene di non riuscire a compiere pienamente il suo dovere di cuoco e maestro di cerimonie a causa di un ritardo nella fornitura di pesce ad un grandioso banchetto per la
riappacificazione del principe di Condé con Luigi XIV. Già nel XVII secolo i cuochi erano talmente pressati dalle richieste del pubblico che venivano spinti addirittura all’autodistruzione.
Arriviamo a considerare il recente e, a mio parere sopravvalutato, The Menu del 2022, diretto da Mark Mylod. Anche questo film usa la rappresentazione della cucina d’autore estremizzata per produrre una debole critica sociale, ma l’immagine dell’autodistruzione finale del ristorante mentre la protagonista si consola con un semplice cheesburgher, è la rappresentazione simbolica della vittoria della semplice cucina popolare su quella d’autore.
Conclusioni
Quindi torniamo al punto di partenza. Anche nel film Hunger la giovane cuoca giunge alla conclusione che la cucina della tradizione è la vera risposta alle sue inquietudini, perché fondata sul calore della famiglia e delle sane relazioni umane. Dopo aver sperimentato il lato oscuro della cucina stellata fondata su atroci sofferenze e sopraffazione al solo scopo di ottenere effimeri successi, essa comprende che la vera strada verso il benessere futuro è quella della tradizione e della socialità.